Vittorio Messina è nato a Zafferana Etnea (Catania) nel 1946. Compie gli studi all’Accademia di Belle Arti e alla Facoltà di Architettura di Roma, città nella quale vive e lavora e dove, alla fine degli anni Settanta, esordisce nello spazio di Sant’Agata dei Goti – punto di incontro e luogo di sperimentazione della giovane arte di quegli anni, con “La Muraglia Cinese”, una mostra articolata intorno all’omonimo testo kafkiano.

Già con la “Muraglia” e con le mostre alla galleria “La Salita” di Roma (1982), e alla galleria Locus Solus di Genova (1983), il lavoro di Messina è orientato verso una forma di scultura ambientale dove scompare progressivamente l’uso di materiali organici e naturali. Così, passando per le mostre alla galleria Minini di Brescia (con Garutti nel 1985), al PAC di Milano, alla mostra “Il Cangiante” curata da Corrado Levi (1986), Messina espone le prime “celle” alla Moltkerei Werkstatt di Colonia e alla galleria Shimada di Yamaguchi (Giappone), veri e propri edifici costruiti con materiali seriali di uso edilizio, di solito autoilluminati con lampade industriali.

Nella sua ricerca l’artista ha elaborato ripetutamente questa iconografia come unità di riferimento, sinonimo della “stanza”, elemento base dell’architettura e in specie dell’edilizia urbana. Dalla metà degli anni Ottanta Messina, utilizzandone i materiali e i modi, ne ha messo in evidenza l’“abuso” consumato dall’arte in rapporto al degrado e alle tematiche ambientali e sociali in atto nelle periferie metropolitane.

Nel 1987, a Palazzo Taverna in Roma (Incontri Internazionali d’Arte), all’interno di un ciclo dove si succedono gli interventi di Maria Nordman, Bruce Naumann e Luca Maria Patella, Messina costruisce una “cella” e pubblica un testo, “Paesaggio con luce lontana”, dove affiora la tematica heisenberghiana dell’indeterminazione, già presente peraltro nella mostra “Spostamenti sulla banda del rosso” di Villa Romana (Firenze 1985). Da questo momento il lavoro di Messina si svolge con stringente continuità visionaria nel grande “Krater” esposto alla mostra “Europa Oggi” del Museo Pecci di Prato (1988), nell’installazione totale alla galleria Oddi Baglioni di Roma dello stesso anno, fino alla mostra “Aetatis suae” alla galleria Tucci Russo di Torino (1990), dove uno schermo televisivo fuori sintonia fa da contrappunto a una serie di cinque grandi nicchie, che svolgono con una sorta di “scrittura plastica” il tema della nominazione.

Successivamente, dalla “cella” della galleria Minini, Brescia (1991), a quella del Kunstverein di Kassel (1991) e della galleria Victoria Miro (Londra 1992), ma anche della “Stanza per Heisenberg” (opera notturna per Edicola Notte, Roma 1991), come nelle 24 finestre della mostra “Lux Europae” di Edinburgh (1992), fino ai lavori del Castello di Girifalco, Cortona (con Thomas Schütte, 1993), l’opera di Messina si configura, con l’imprevedibilità e il disincanto di un vero e proprio cantiere metafisico. Un’idea, questa, che si sviluppa a partire dagli anni Novanta, nelle mostre al Kunstverein di Düsseldorf, alla Villa delle Rose, Bologna, alla National Galerie di Berlino, al Museo di Erfurt, al Museo di Leeds, fino alle grandi installazioni nei “Dialoghi” (Maschio Angioino e Castel dell’Ovo, Napoli, 2002), integrando una forma di mobilità e di precarietà radicali, all’immagine della città come organismo improprio e artificiale. Nella mostra “A village and its surroundings” (H. Moore Foundation, Halifax 1999) alcune installazioni includono l’uso di film-video nella prospettiva del “tableau vivant”, della “segnalazione” e del “controllo”. In “La discrezione del tempo 1” (Museo Ujazdovki, Varsavia, 2002), e in “Una città visibile”, (Modena, 2004), e poi ancora nelle “Cronografie, o della città verticale” (Cavallerizza Reale, Torino (2006), e in “Momentanea Mens”, (DKM Foundation, Duisburg 2009), lo spazio-tempo dell’habitat umano tende a espandersi ulteriormente, fino alla dilatazione estrema di “Hermes”, un’opera della durata di 72 ore, divisa in 9 “Capitoli”, nata dall’elaborazione di un film di 42 minuti primi in formato 8 mm del 1970 (Insel Hombroich, 1970/2008). Infine, nella mostra alla Galleria Guidi di (Roma, 2011), come nelle opere al MACRO (“Eighties are Back”, Roma 2011) e nella mostra con Thomas Schütte alla Villa Massimo (Roma 2011), Messina rafforza la componente tautologica del suo lavoro e avvia una nuova riflessione sulle forze e le dimensioni dello spazio reale.

Nel 2013 Messina, al Museo delle antiche Mura Aureliane di Roma, si confronta ancora con un ambiente fortemente segnato dalla storia e dagli eventi, come nelle due grandi mostre del 2014, al MACRO di Roma e alla Kunsthalle di Göppingen, sul tema di “Postbabel e dintorni”, dove il soggetto della città riemerge come riflessione sull’origine del linguaggio e della stessa forma dell’arte come tensione e portato culturale della comunità umana, la stessa che nel “Teatro Naturale, Prove in Connecticut” (2016), la mostra al “Regio Albergo delle Povere” Museo Riso di Palermo, è protagonista assente dei nuovi “Habitat” di Messina. Protagonisti assenti o smemorati, forse, davanti alle rovine che la storia accumula instancabile davanti allo sguardo attonito dell’Angelus Novus, nello stesso luogo dove sono chiamati per un “Convivio” al 271 di Höherweg (2018), nell’elegante Düsseldorf, lo stesso dove Messina ha allestito l’atmosfera rovente del ritornante, eterno “Red Shift”; ed è attraverso la costante, radicale innovazione del suo lessico che l’artista va precisando una concezione discontinua dello spazio-tempo e, quindi, della storia come accumulo infinito e insensato dell’esperienza – certo, dell’esperienza individuale –, che nell’arte si traduce come corrispettivo di una interiorità in gran parte inaccessibile, se non per generosi tentativi.

Questo si legge nella “fluidità” del suo lessico, come appare nelle opere recenti concepite per lo spazio one-man della 24° edizione di Miart 2019 a Milano e per la contemporanea Biennale de L’Havana 2019.